2011  MYANMAR

Un paese sotto dittatura

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Singapore - I grattacieli di Raffles Place

 

E’ stato un viaggio complicato, nella realizzazione dell’itinerario e nella sua esecuzione. Parto alle 11.45 dalla Malpensa verso Singapore dove atterro in orario di prima mattina. Ho quattro ore a disposizione, grazie alle quali decido di visitare parte della città. Sino al 1959 colonia britannica, dopo un breve periodo di appartenenza malese, diventa repubblica nel 1963. Singapore è un miracolo economico famoso in tutto il mondo. Il merito va attribuito all’ex primo ministro della repubblica, Lee Kuan Yew dimessosi nel 1990 e che ha saputo trasformare uno stato-isola senza alcuna risorsa naturale nella grande nazione industrializzata che rappresenta oggi. Tutto questo, prodotto da una classe dirigente integra e non corrotta che crea stabilità e produttività. Con l’MRT, una sorta di metro locale che collega il Changi airport alla city, esco in Raffles place, centro tecnologicamente all’avanguardia,  circondato da grattacieli dove hanno sede molti gruppi multinazionali e le banche UOB e OUB alte 280 metri, altezza massima consentita dalle autorità. Da qui raggiungo Boat quay, sede di numerosi bar e ristoranti tra cui il celebre Harry’s bar. Splendida veduta sul fiume Singapore. Attraverso un ponte che mi conduce al Parlamento e al palazzo dell’High Court, quindi percorro la Connaught drive fino all’altra zona famosa della città, Raffles city, dove visito la St.Andrew’s cathedral, chiesa anglicana dove, all’interno, sono stati sistemati dei televisori per consentire ai fedeli di seguire meglio l’omelia del prete. Proseguo quindi fino alla vicina Armenian church e alla Chijmes, vecchio convento, ora trasformato in negozi e ristoranti, sullo sfondo del Swissotel, l’hotel più alto del mondo. Ammiro dall’esterno il famoso Raffles hotel, oasi di tranquillità per gli europei che si isolavano dal calore tipico del sud est asiatico. Da qui percorro una lunga strada che mi porta fino al Marina Sands dove sono attratto da una costruzione atipica che mi si chiarisce man mano che m’avvicino. E’ il complesso del Marina park, composta da tre torri vicine collegate fra loro, in cima, da una sorta di enorme imbarcazione con campi gioco e piscine. Una esperienza fantastica salire con gli ascensori veloci fino al 58° piano da dove si gode una vista incomparabile sulla città, i suoi grattacieli e la baia. E’ ora di tornare con la metro al Changi dove attendo ora la chiamata per il volo della Silkair che, finalmente, mi porterà in Myanmar, atterrando nella sua vecchia capitale, Yangon. La mia guida mi aspetta all’uscita dell’aeroporto e, dopo aver sistemato le mie cose in albergo, ci dirigiamo alla celeberrima Shwedagon paya. Il sole sta già calando e voglio avere la chance di ammirare la sua grandiosa cupola dorata di 98 metri mentre gli ultimi raggi le conferiscono le sfumature di cui va famosa. L’edificio originario fu costruito dai Mon in un epoca compresa tra il VI e il X secolo e nel XV secolo ebbe inizio la tradizione di dorare lo stupa. La regina Shinsabu fece raccogliere una quantità d’oro pari al proprio peso (40 kg.) e dopo averlo ridotto a una foglia sottile ne fece rivestire la struttura. Suo genero si spinse oltre, offrendo alla paya quattro volte il proprio peso e quello della moglie. La struttura è composta dallo stupa principale che si eleva dalla piattaforma con forma tradizionale. Tutto intorno ci sono altri stupa più piccoli, santuari, sale di preghiera e una quantità di monaci e fedeli prostrati in adorazione al Buddha. L’atmosfera è magica, la luce artificiale ora riflessa sul pavimento della piattaforma e sulle varie superficie dorate è un valore aggiunto che muove alla contemplazione. Dopo due ore sono stanchissimo, il volo intercontinentale, la parentesi di Singapore, presentano insieme il conto. Prendo un taxi e ritorno in albergo a cenare. L’indomani, dopo una nottata rigeneratrice, sono pronto a dare inizio al tour de force. Dopo colazione infatti, ecco l’autista che mi aspetta nella hall per portarmi nuovamente all’aeroporto. Lungo il tragitto osservo i monaci con la loro scodella che vanno a mendicare cibo. Il traffico, come in qualsiasi altra metropoli del mondo, è caotico pur restando nei limiti della sopportazione. A causa dell’embargo e delle condizioni di crisi del paese il parco vetture è quanto di più obsoleto si possa immaginare. Quasi solamente auto giapponesi e modelli vecchi, alcuni di decine di anni. I distributori di benzina sono pochi e la stessa razionata, perciò ci sono grandi file in attesa di approvvigionarsene, nonostante il paese abbia grandi giacimenti off shore. Quando si è finita la benzina a disposizione ci si deve rifornire al mercato nero dove la si paga di più. Il Myanmar è senza dubbio uno dei paesi più affascinanti del mondo, ma anche luogo dove la dittatura militare ha imprigionato i dissidenti politici e costretto la gente ai lavori forzati. Nel 2007 la giunta al potere si è impossessata degli aiuti internazionali dopo il devastante ciclone Nargis che ha messo in ginocchio tutta la zona del delta dell’Irawaddy. I proventi derivati dal turismo in parte vengono introitati da un elite che non vuole lasciare il bastone del comando. Dopo decenni di isolamento autoimposto, la più lunga dittatora della storia si è aperta agli stranieri con una massiccia campagna di promozione turistica. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a lavorare per costruire aeroporti e strade. Migliaia di famiglie, come a Old Bagan, sono state costrette a lasciare le loro abitazioni per far spazio ai servizi turistici. Nonostante il boicottaggio decretato dall’occidente, il generale Than Shwe (ora ottantenne) è riuscito, corteggiando i suoi vicini, a firmare commesse di petrolio e legname con l’India, la Cina e la Thailandia. Molte società considerate private sono di fatto gestire da membri del governo o da loro familiari e il giro d’affari è in genere collegato a settori ad alto reddito, come le pietre preziose e il legname. Mentre la gente vive di niente, sopravvive in un clima di ingiustizia generalizzata. Il Myanmar è di fatto una polveriera. Dopo le elezioni del 1990 stravinte dal partito della Lady (Suu Kyi), la giunta ha imprigionato praticamente tutta l’opposizione e ucciso molti esponenti, mentre ai confini con la Cina e la Thailandia si continua a combattere contro gli Wa e i Karem che pretendono l’indipendenza come il turbolente popolo Shan. Il volo doveva portarmi a Kengtung capitale del celeberrimo Triangolo d’oro, ma l’aeroporto è in ristrutturazione così devo atterrare nella città di frontiera di Tachileik ai confini della Thailandia dopo un volo ad elica dell’Air Bagan che mi fa scalo ad Heho e Mandalay. Fuori mi attende un  autista ed un altro che disbriga le noiosissime formalità burocratiche necessarie per percorrere la strada fino a Kengtung. Nel frattempo assisto al via vai di gente che passa la frontiera. Si parte e, subito usciti dalla città, si viene fagocitati dalla campagna col solito paesaggio di campi coltivati a mais, riso, cipolle, aglio. Piccoli villaggi sfilano quasi senza soluzione di continuità ed una umanità variegata sfoglia la sua vita tutta ai margini dell’unica strada che sale verso nord. Pollame, maiali, bufali che, refrattari alle regole stradali, attraversano senza curarsi del passaggio delle auto. Campagna, foresta e un fiume che ci scorre vicino, in questo angolo di mondo conosciuto ovunque come il centro di produzione dell’oppio. Ci fermiamo tre volte per registrare il passaporto e la mia presenza su questo territorio dominato da sempre dai signori della droga. Le tenebre ci sorprendono che ancora Kengtung è lontana 50 chilometri. Per anni al centro del fuoco incrociato dei re dell’oppio oggi, finalmente, si respira tranquillità, ma sulle montagne al confine con la Cina, la situazione è ancora fuori controllo e le restrizioni di movimento per i pochi turisti sono notevoli. Il triangolo d’oro è un aerea montagnosa che si estende per 400.000 chilometri quadrati tra Birmania, Laos e Thailandia. Qui si produce il 60-70% dell’oppio–eroina che giunge nei mercati mondiali. Fino a pochi anni fa la maggior parte della produzione era in mano a un uomo, Khun Sa, noto come il re dell’oppio, l’ultimo grande trafficante di droga. Negli anno sessanta creò il suo esercito, prese il controllo dello stato Shan dichiarando la secessione e da allora ha condotto una guerra per la liberazione. La questione è però un po’ più complessa. In quel periodo l’America era preoccupata dalla deriva comunista cinese e prese contatti proprio con lui fornendo armi in cambio di droga. Nel 1988 il governo statunitense pagava al signore Shan 300.000 dollari per ogni tonnellata di eroina, ma il prodotto poi veniva venduto a un milione di dollari. Il re dell’oppio dichiarava di non controllare nessuna raffineria in quanto le stesse erano in mano a uomini d’affari stranieri ben lontani dal Triangolo d’oro. In fin dei conti chi si arricchisce dai traffici illegali non sono i coltivatori ma i trafficanti, i mediatori, i rispettabili banchieri, i politici corrotti. I poveri coltivatori ricavano solo 100 euro per famiglia all’anno. Anche in Afghanistan la Cia finanziava i produttori di oppio per combattere le forze sovietiche nell’invasione degli anni ottanta. Si giunge in città di sera, il mio alloggio è in periferia, non ci sono taxi a quest’ora e così sono costretto a cenare in una bancarella di cinesi sulla strada con due spiedini di pesce e riso, servito rigorosamente con le classiche bacchette. Mi pare di essere fuori dal mondo. La mattina seguente conosco la guida e insieme al driver ci si dirige verso le montagne. Anche qui controlli. Proseguiamo per un ora di macchina verso nord, fra risaie e altre coltivazioni, capanne e animali che scorrazzano, fino a lasciare l’auto e proseguire  a piedi. Si sale lungo un sentiero all’interno della foresta per circa un ora dopodichè appare il villaggio Enn. Le prime donne ci vengono incontro con il codazzo di figli. Intorno, case di legno su palafitte con tetti di paglia, mentre l’acqua per i consumi proviene da un ingegnoso sistema d’irrigazione realizzato con tronchi di bambù scavato. Gli Enn vestono semplicemente, con tuniche nere e portano bracciali di metallo. Nella vasta foresta dello Shan gli Enn sono i soli ad aver conservato l’antico culto animista, non hanno sviluppato alcun tipo di economia e stanno lentamente scomparendo al pari dei Lu, dei Lam e degli Yo. Usano masticare noci di betel, per questo i loro denti sono quasi perennemente neri. Il villaggio è governato da uno sciamano la cui casa ci consente di visitare, ma si deve lasciare fuori le scarpe e non toccare nulla, assolutamente nulla. Loro sono animisti e con credenze che si fa fatica a concepire nel terzo millennio. In un lato della casa c’è un groviglio di teschi animali che servono a tenere lontano gli spiriti maligni. Lo spazio cucina è al centro, mentre la zona notte per i coniugi è separata dal resto da uno spartano separè. I loro matrimoni sono rigorosamente fra componenti della stessa etnia, al contrario si allontana la persona dal villaggio. La poligamia è accettata e ogni uomo può unirsi anche a tre, quattro donne. Ci sono una sessantina di case per 400 abitanti circa. Proseguiamo per l’altro villaggio in programma, abitato invece dall’etnia Akha. In origini animisti anch’essi, dopo una terribile epidemia che ha falcidiato la maggior parte degli animali e molti esseri umani, a sentir loro a causa degli spiriti maligni, si sono convertiti al cristianesimo dopo che dalla città sono venuti ad aiutarli portando con loro anche le bibbie. Sono esperti agricoltori che si concentrano su riso, mais e soia ma anche cacciatori. Il villaggio è povero, fatto di poche capanne, un esiguo numero di animali e le donne sono molto appariscenti con le loro tuniche ricamate, copricapo decorati con monetine e dischetti di metallo martellato. Trascorro anche qui un oretta, mangiando qualcosa nella casa del capo villaggio per poi ridiscendere lungo un altro percorso e ritornare giù dove ci aspetta l’autista. Attraversiamo il villaggio Palaung di Wan Pauk dove notiamo un gran fermento. A piedi percorriamo alcune vie e con grande piacere si notano i preparativi per la festa del nuovo anno che sarà celebrata stasera. Devo assistervi e così organizzo con la mia guida di venirci dopo cena. Mi riporta in albergo per sistemarmi e alle sei di sera mi viene a prendere con la sua motocicletta. Non si può raggiungere quel villaggio senza un altro permesso e perciò, dopo una sosta al Golden Banian a gustare maiale con germogli di bambù, si parte, casco in testa, per il villaggio lungo sentieri immersi nel buio più totale. Al posto di controllo nascondo il viso dalla parte opposta per non farmi scoprire. Ecco in lontananza le luci della festa e subito dopo una lunga colonna di biciclette e motorini. Ci incamminiamo verso un palco dove delle ragazze agghindate nei tipici costumi palaung, con la cintura larga di metallo, stanno esibendosi in una tradizionale danza. Assisterò due ore alle performance degli artisti di turno, solo ed unico straniero fra centinaia di locali, magico. Ritorno quindi in albergo sempre prestando molta attenzione al posto di blocco dei burocrati locali. La mattina seguente è dedicata alla visita della città. Cominciamo dall’interessante mercato dove, come sempre, le cose più curiose le offre la sezione dei cibi, con verdure e cereali, ginger e curiose specialità alimentari come il maiale, battuto e trasformato prima in poltiglia e poi bollito in forma di gnocchi in grande pentoloni. E che dire dei pacchettini con vermi del bambù fritti? Trascorriamo un oretta qui, completando con i banche della carne e del pesce per poi dirigerci verso la Wat Mahamuni, dagli interni riccamente decorati. Una puntata quindi al Ya Taw Mu, un imponente statua del Buddha eretto che punta verso il lago, il monumento più caratteristico di Kengtung. Quindi il Wat Chiang Jan con diverse statue del Buddha al suo interno e per finire una visita ad una fabbrica di lacca. E’ ora di ripartire in auto per Tachileik dove giungo solo 45 minuti prima del decollo per Heho. Tutte le operazioni di imbarco, come in ogni altro aeroporto del paese vengono fatte senza l’uso di alcun computer, tutto a mano, cose d’altri tempi. Atterro a Heho, altro autista che mi porta a Nyaungshwe, il centro principale sul famoso lago Inle. E’ ormai pomeriggio inoltrato, ma riesco comunque a fare un giro della cittadina e a visitare il tempio più antico e più importante, la Yadana Man Aung paya, un bellissimo stupa dorato seminascosto dentro un recinto quadrangolare a sud del mercato. Il padiglione circostante contiene una collezione di tesori accumulati dai monaci nel corso dei secoli tra cui lacche e costumi di danzatori. Proseguo la visita con il Hlaing Gu Kyaung, un monastero che conta un centinaio di monaci e un interessante collezione di antiche statue del Buddha. La sera mi dirigo verso la periferia dove, attraversato un ponte su uno dei canali intorno alla cittadina, è un ristorante assolutamente fuori posto nel contesto, un oasi gastronomica di primo livello dove gusto un piatto di maiale con fagioli neri e un bicchiere di Cabernet Syria, rosso prodotto da un tedesco stabilitosi in Myanmar che ha trovato dei terreni ideali dove coltivare svariati vitigni di rossi e bianchi. L’indomani si parte relativamente presto, alle 6.30 e la prima visita è in un monastero dove risiedono 50 giovani monaci e ben 777 statue del Buddha. Più avanti facciamo una sosta alla vecchia miniera di Myin Ma Hteet e, attraverso un percorso fra i suoi cunicoli, ammiro alcuni statue e tempietti di preghiera dove i monaci si ritirano in meditazione. Proseguiamo lungo una strada accidentata e stretta lungo la quale noto per la prima volta alcune donne dell’etnia Pa-o. Si vestono con pantaloni e giubbetti neri e dei copricapo colorati nella tonalità del rosso. In un villaggio notiamo del trambusto, la mia guida mi informa che si sta svolgendo un pranzo di matrimonio. Faccio fermare immediatamente e chiedo di introdurmi nelle sale della festa. Sono solo io in mezzo a decine e decine di Pa-o che mi osservano curiosi. Mi offrono del tè che accetto volentieri e poi mi siedo a contemplare la riunione in tutta calma. C’è un’enorme pentola piena di riso a cui uno di loro attinge servendo i commensali. Molte donne hanno spalmato in viso una sorta di pasta di colore giallo che serve loro da tonico, crema solare e di bellezza allo stesso tempo. Ripartiamo nuovamente lungo questa strada fino a tre anni fa chiusa agli stranieri e ancora oggi restricted area. Per venirci la mia agenzia ha dovuto ottenere un permesso speciale. Dopo il pranzo in un ristorantino locale entriamo nello stato Kayah e ora dobbiamo presentare il permesso. Questa è la terra dei Karen, abitanti delle montagne che da vent’anni combattono per l’indipendenza. Le armi le prendono dai mercanti d’armi thailandesi con i soldi che gli forniscono gli altri grandi combattenti birmani: gli Wa, stanziati al confine della Cina sopra Kengtung. Gli Wa sono coltivatori di oppio che poi vendono in Thailandia ai grandi mercanti di morte, ma per arrivarci devono passare dai territori dei Karem che li scortano nella foresta al prezzo di una percentuale sui profitti. Quando nel 1948 alla Birmania fu concessa l’indipendenza varie tribù montane non accettarono il nuovo ordine basato su una cattiva combinazione di socialismo, isolazionismo e buddhismo e diedero inizio ad una rivolta contro il governo centrale Da allora l’esercito di Liberazione Nazionale dei Karem si batte per mantenere il controllo sui circa 640 chilometri lungo la regione montagnosa che fa da frontiera con la Thailandia. Nei pressi di una pozza ci fermiamo ad ammirare il bagno dei bufali d’acqua, quindi raggiungiamo Loikaw (capitale del Kayah) dove domani ho in programma di visitare l’unico villaggio possibile dove ancora si possono incontrare i Padaung, un sottogruppo dei Karen. E’ una dell’etnie più misteriose e affascinanti dell’intero oriente. In lingua birmana il loro nome significa lungo collo. La storia di questa etnia particolarissima è singolare. Originari dei dintorni di Loikaw, per anni gli uomini sono stati costretti dall’esercito a combattere contro i Keren delle montagne e per questo la maggior parte è fuggita con le loro donne oltre la frontiera con la Thailandia dove vivono in squallidi campi profughi. Le loro donne, le famose donne giraffa, attirano decine di migliaia di turisti che attraverso tour avventurosi vanno a vederle per fotografarle come si fa con gli animali allo zoo. E’ così che l’Onu ha paragonato il trattamento a cui vengono sottoposte, ma almeno così si guadagnano da vivere con i soldi che danno loro i turisti. Tre anni fa il governo birmano a deciso di aprire agli stranieri un villaggio nei pressi della capitale del Kayah, Loikaw per l’appunto. In realtà ci sono altri due villaggi più a sud dove vive ancora questa etnia, ma è assolutamente off limits dato che la zona è pericolosa a causa dell’instabilità dovuta alla guerriglia Karem. Domani perciò ci recheremo nell’unico villaggio dove i Padaung vivono ancora conservando le loro tradizioni.  Di sera, cena in un ristorante cinese, il migliore della città, dove nessuno capisce una parola d’inglese, nemmeno sugar. Giunge il giorno che tanto ho atteso. Di mattina, dopo colazione, e dopo una prima visita al locale mercato, si parte verso sud. Dopo una decina di chilometri il driver si ferma e proseguiamo a piedi entrando nel villaggio Padaung di San Ban. Poche decine di metri, ecco la prima donna che sta tessendo con un rudimentale telaio e il cuore mi batte in petto. Non sono molti i luoghi sulla terra dove si possono fare esperienze di questo genere con usi così originali. Dopo i Mursi e gli Hammer della regione dell’Omo in Etiopia e le tribù montane della Papua Nuova Guinea infatti, non so dove si possa incontrare una popolazione con tradizioni così curiose.  Si narra che i Nat, gli spiriti delle tribù Karen, per punire gli insolenti quanto superficiali Padaung, aizzarono le tigri della foresta contro le donne. Fu così che gli uomini, vedendole morire una dopo l’altra, decisero di seguire alcuni consigli di un vecchio saggio: forgiare dei grossi anelli d’oro con cui proteggere il collo, i polsi e le caviglie dai morsi dei felini. Da allora le donne, pur utilizzando un metallo meno prezioso, non abbandonarono più questa usanza che si tramutò in simbolo di bellezza. Da secoli il rito di iniziazione si ripete  identico. All’età di nove anni, durante una sorta di cerimonia di iniziazione che si svolge tra canti e danze, vengono loro applicate spirali di ottone alle braccia, alle caviglie e un collare al collo. Ogni due anni viene aggiunto un anello. Per il peso delle spirali il collo comincia a deformarsi allungandosi fino ad arrivare ad un massimo di 25 - 30 centimetri. Il movimento del collo, racchiuso in questa morsa di qualche chilo è limitato e, per favorire la circolazione sanguigna, è obbligatorio un massaggio quotidiano alle braccia e alle gambe. Una volta che i muscoli sono completamente atrofizzati il collo non è più in grado di sorreggere il peso della testa tanto che se il collare venisse tolto le donne morirebbero soffocate poiché la testa, cadendo in avanti, bloccherebbe la respirazione. Le spire d’ottone inoltre, per l’abbondante sudorazione provocata dall’umidità, possono causare infezioni e, nelle giornate di sole, devono arrotolare un asciugamano per impedire che i raggi solari arroventino l’ottone. Trascorro al loro villaggio più di due ore, entrando in alcune case col tetto in lamiera. La cucina è spesso all’esterno e dove trascorrono la maggior pare del tempo. Incontrerò molte donne Padaung che si vanno a trovare l’un l’altra. La mia presenza incute loro curiosità, ma non chiedono nulla, non vogliono vendermi niente, è un atmosfera rilassata, assolutamente naturale. Mi muovo fra loro con calma e discrezione chiedendo ogni tanto il permesso per qualche foto. Sono tutte in età avanzata (sui 50 - 60 anni). Pochi sono gli uomini presenti, qualche ragazza. La tradizione di portare gli anelli scomparirà con loro. C’è la scuola, il mondo esterno, e le giovani non vogliano più mantenerla perché si vergognano. Tra dieci, vent’anni, questa usanza cesserà di esistere con la morte delle loro madri. Sto vivendo un esperienza unica al mondo, nessun turista, la semplice consapevolezza delle cose vere. Poco fuori dal villaggio osservo i pali dei loro spiriti Nat, residuo dell’epoca  prebuddhista quando era l’animismo a dominare incontrastato. Il culto dei Nat è tipicamente birmano ed è uno spirito che può esercitare un potere su di un luogo, una persona o un settore dell’esperienza umana. Ogni anno, ad aprile viene messo un palo nuovo. Tutto intorno, campi coltivati, dato che loro sono esperti agricoltori. Dopo una visita ad una scuola primaria poco distante, andiamo a visitare un importante luogo religioso della cittadina, con molti pali per il culto Nat dove ogni aprile si svolge un importante festival del Kayah. La mattinata prosegue con un salto alla Christ of king cathedral, una chiesa anglicana costruita dagli inglesi e la nuova costruzione più vicina terminata nel 2000. Pranzo al Loikaw city, gustando un tilapia fritto e di pomeriggio mi portano ad ammirare la statua del Buddha sdraiato e quindi al Taung Kawe, un complesso di templi abbarbicato su vari spuntoni rocciosi e collegati fra loro da ponti. Dalla cima si gode una bella vista sulla cittadina. Purtroppo comincia a piovere. Non c’è altro da fare, si torna in guest house ad attendere l’ora  di cena, sempre all’unico ristorante valido della zona dove gusto un tilapia grigliato con patatine e un buon vino bianco Aythaya, prodotto con uve moscato. La mattina seguente si parte di buon ora percorrendo una quarantina di chilometri verso nord sino all’imbarcadero di Phe Khone. Da adesso si proseguirà in barca, navigando nelle acque del lago artificiale creato dalla diga a valle sul fiume che ha origine dal lago Inle. Nel 1962 il governo impose a circa 40 villaggi di spostare le loro abitazione di centinaia di metri, ne restano alcune che spuntano qua e là dall’acqua. E’ nuvoloso e ogni tanto scende una debole pioggerella che però non da fastidio. Sosta ad un piccolo monastero su un isoletta mentre noto alcune case su palafitte in mezzo al lago. Qui l’acqua è bassa, e ci vivono i pescatori Shan che si vedono scivolare sulle acque con le loro piccole e strette imbarcazioni. Ogni tanto il percorso che facciamo taglia della vegetazione lacustre che in alcuni punti stende sulla superficie il suo manto come una coperta ondulata punteggiata da giacinti d’acqua e fiori di loto. In altri casi si nota chiaro il letto del fiume originario e scorriamo all’interno di esso. Eccoci a Sankar, scendiamo e percorriamo un sentiero nel villaggio fino ad una distilleria di whisky di riso dove assisto alle varie fasi del procedimento per produrre il distillato. Proseguiamo quindi fra capanne Pa-o fino ad un bellissimo complesso di stupa del 17° e 18° secolo. Pranzo in un ristorante su palafitta per poi proseguire verso il villaggio Pa-o di Naug Bo, in riva al lago. Qui la loro attività è realizzare contenitori di ceramica nella stagione secca, mentre durante quella umida si dedicano alle coltivazioni. Anche qui assisto con interesse alle varie fasi di realizzazione dei recipienti che poi vengono posti in forni scavati sottoterra a cuocere per due giorni. Quindi vengono decorati. Il pomeriggio prosegue navigando fra villaggi su palafitte che si specchiano sulle acque e attraverso la vegetazione lacustre. Nessun turista ad inquinare un esperienza che, a tratti, mi pare sublime, incantevole. Finalmente si giunge al celeberrimo lago Inle, forse la cartolina più fotografata di tutto il paese. Lungo 22 chilometri e largo 11, è luogo reso famoso dai pescatori Intha che si cominciano a vedere qua e là, col loro modo stravagante di remare. Se ne stanno in piedi in equilibrio  a un’estremità delle loro piroghe, ritti su una sola gamba come fenicotteri. Con l’altra, attorcigliata attorno ad un lungo remo, spingono e mantengono la rotta delle loro fragili imbarcazioni, mentre con le mani gettano le reti. Sono gli stessi che qui, nei famosi giardini galleggianti, coltivano vari tipi di verdure. Lo fanno in lunghe strisce fertili in mezzo al lago composte da un magma di radici galleggianti cosparse di terra e fertilizzate da alghe e erbacce acquatiche. In questi orti galleggianti che andrebbero alla deriva se non fossero ancorati al fondo da pali di bambù, vi crescono zucchine, fagioli, peperoni, cetrioli e pomodori (il 40% di quelli prodotti nel paese proviene da qui). Si coltivano anche fiori di loto, la cui fibra è più preziosa della seta. Navighiamo fra i floating gardens, fra villaggi su palafitte, incrociando canoe di gente che trasporta merci o le loro semplici cose fino a casa. E’ certamente un quadro dipinto da un artista d’altri tempi, che mi riempie l’animo di gioia, mentre la nostra imbarcazione scorre veloce verso nord. Il sole sta tramontando laggiù, dietro le ultime nuvole che invano cercano di squarciare, mentre raggiungiamo la nostra destinazione finale, il capoluogo della zona: Nyaungshwe. L’autista mi aspetta per riportarmi all’albergo, un breve riposo per poi uscire nuovamente sempre allo stesso ristorante di due giorni fa: il View point restaurant, dove questa volta ceno con filetti di carpa del lago. E’ stata una giornata straordinaria, conclusa nel modo migliore. L’indomani è prevista un’altra navigazione fino ad alcuni villaggi su palafitte e costieri. Cominciamo a sud col villaggio di  Tha Ley, a cui giungiamo seguendo un ampio canale. Prima si visita il locale mercato dove noto Intha e Pa-o nei loro banchi di pesci e verdure. Quindi alla Phaung Daw Oo paya, il sito religioso più sacro della zona meridionale dello stato Shan. Al centro dell’imponente pagoda a più piani ci sono quattro antiche statue del Buddha rese quasi irriconoscibili dallo spesso strato di foglie d’oro applicate dai fedeli. Durante la festa annuale queste statue vengono portate in professione su una bella barca decorata che ammiro lì vicino. Ripartiamo verso il villaggio di In Phaw Khone, costruito interamente su palafitte di tek,. E’ famoso per i suoi laboratori di tessitura. Affascinate osservare l’abilità di queste tessitrici che riescono a produrre elaborati tessuti multicolori con semplici telai formati da canne di bambù tenute insieme da corde. Navighiamo in seguito col cielo terso all’interno del villaggio di palafitte di Pawk Pay. Sarà un esperienza indimenticabile, certamente qualcosa di molto simile ad un quadro del paradiso. Le case, i pali, si specchiano nell’acqua inondata di raggi solari, canoe che scivolano creando minuscole onde luccicanti e il mio spirito, come quei pali di tek che sorreggono le case che si eleva sopra tutto e sembra nutrirsi di ogni molecola di serenità che permea il luogo. Sostiamo in un ristorante su palafitte dove gusto fish tempura e poi si riparte per l’ultima visita della giornata, il Nga Hpe Kyaung, un monastero famoso per la sua comunità di gatti che i monaci hanno addestrato a saltare attraverso piccoli cerchi. Ora i gatti dormono, ma il luogo è comunque interessante dato che poggia su 654 piloni tek ed è il più antico del lago. Bellissimi reliquari intagliati in tek e un eccezionale trono anch’esso cesellato. Si ritorna quindi a Nyaungshwe proseguendo poi per l’aeroporto di Heho. Saluto la mia straordinaria guida locale e volo verso Mandalay dove atterro mezzora dopo. Anche qui, altro driver con il quale parto per la città. Il pomeriggio sta terminando, ma riesco comunque a stralciarmi un escursione alle Mandalay hills prima del tramonto. Situata su un ansa del celebre fiume Irawaddy (lungo 2.120 km.) la città è sporca e trasandata, nonostante i suoi 150 anni di storia. I cinesi l’hanno colonizzata. Prima delle rivolte del settembre 2007,  il 60% dei monaci birmani viveva qui, nel quartiere verde a sud ovest del centro. Non sono molti i luoghi di interesse in città, le escursioni sono tutte alle vecchie città imperiali nella sua periferia. Dalle Mandalay hills ammiro il panorama della pianura sottostante. Giunto in cima alla collina, prendo delle scale mobili che mi portano alla sommità dove ci sono templi di nuova costruzione e la possibilità di godere di una vista che spazia a 360° tutto intorno. Quindi raggiungo il mio albergo dove ceno e attendo la nuova giornata di domani quando, di mattina presto, conosco la mia nuova guida. Dapprima una visita ad una fabbrica di foglie d’oro di cui la città è famosa e quindi ad un altro negozio bellissimo dove assisto alla tessitura degli arazzi. Ne compro uno stupendo che spero sappia impreziosire qualche muro di casa. Quindi diamo il via alle vere e proprie visite della giornata che cominciano con la Mahamuni paya, uno dei siti buddisti più famosi del Myanmar. La fama della paya è dovuta alla veneratissima e antichissima statua del Buddha Mahamuni. Alta quattro metri e forgiata nel bronzo, nel corso dei secoli i fedeli l’anno ricoperta completamente d’oro, formando uno strato spesso quindici centimetri. Molto interessante anche le altre sezioni del complesso come il museo e le sei statue kmer in bronzo. Usciamo dalla città puntando verso Amarapura, penultima capitale del regno di Myanmar. Nonostante il suo nome significhi città dell’immortalità, il suo ruolo come capitale non durò che un breve periodo. Giungiamo al Maha Ganayon kyaung, un monastero che ospita diverse migliaia di monaci e famoso come centro di studi monastici. Girovago fra le varie sezioni del monastero ammirando la cucina con i suoi enormi pentoloni, la sala da pranzo, i dormitori. Nei pressi è anche l’altra grande attrazione della zona: l’U Bein’s bridge, uno dei luoghi più fotografati del paese per via del suo suggestivo ponte pedonale in legno di tek lungo 1.200 metri che attraversa le acque poco profonde del lago Taungthaman. Il ponte, che resiste agli attacchi del tempo da due secoli,  vanta tuttora il primato mondiale dei ponti in tek. Lo percorro quasi interamente dopodichè si riparte verso Sagaing che raggiungiamo dopo aver attraversato un successivo ponte sull’Irawaddy. E’ impressionante la quantità di templi che sono sparsi sulle colline di questo luogo. Si dice ce ne siano cinquecento, insieme a decine di monasteri, come il Sitagu a cui sostiamo ora che è anche università di studi buddisti. Non c’è molto da vedere se non la straordinaria collazione di fotografie tutto intorno al complesso, che offrono al visitatore esempi di arte religiosa proveniente da India, Cina, Indocina.  Riprendiamo a salire lungo le Sagaing hills fino alla Umin Thounzeh (trenta grotte) con 45 statue del Buddha disposte lungo un colonnato a forma di mezzaluna. Ancora più in alto fino alla Soon U Ponya Shin paya alta 29 metri e costruita nel 1312. E’ ora di pranzo e lo espleto al Sagaing restaurant, forse il migliore della zona, dove gusto  fish curry (una salsa con cipolle, aglio, ginger) che rende il pesce delizioso. Ricominciamo le visite con la Kaughmudaw paya, forse il più conosciuto tra gli stupa della zona La gigantesca cupola bianca che si staglia contro il cielo è ora sotto lavori da parte di veri e propri acrobati stuccatori che sono appesi in un modo che farebbe impazzire gli ispettori del lavoro nostrani. Raggiungo ora la riva dell’Irawaddy e, con un traghetto, attraversiamo la sponda per raggiungere il sito di Inwa, capitale del regno birmano per 400 anni. Lì prendiamo un carretto trainato da un cavallo con il quale andiamo a visitare i due siti più famosi: Nanmyin, la torre di guardia in muratura alta 27 metri che è tutto ciò che rimane del palazzo fatto costruire da un grande re birmano. La parte superiore fu distrutta dal terremoto del 1838 e ora ha assunto una pendenza decisamente preoccupante. Lo salgo fino in cima godendo dall’alto della piana sottostante, quindi si va al Maha Aungmye bonzan, un monastero in mattoni e stucco. Ritorniamo all’auto attraversando nuovamente il fiume e tornando a Mandalay ci resta tempo per il Shwenandaw kyaung, un edificio grandioso in legno, di grande interesse non solo in quanto è una bellissima testimonianza dell’architettura monastica lignea tradizionale, ma anche perché ricorda vagamente il modello dell’antico Mandalay palace di cui questo edificio un tempo faceva parte e dove visse il re Mindon. Egli lo fece demolire e ricostruire fuori dalle mura trasformandolo in un monastero. Questo lo salvò, dato che durante la seconda guerra mondiale il Mandalay Palace & Fort crollò sotto i bombardamenti. Gli intarsi che ammiro sono pregevolissimi. Ultima visita alla Kuthodaw paya, spesso definita il libro più grande del mondo per le 729 lastre di marmo situate attorno allo stupa. Esse recano tutti i 15 libri del Tripitaka, la Bibbia buddista. Bene, è stata una giornata piena. Mi riaccompagnano all’albergo dove ne esco la sera per andare a cenare lì vicino. Completo la visita della zona l’indomani quando ci rechiamo al molo dove, con un imbarcazione navighiamo l’Irawaddy fino al villaggio di Mingun. Durante il tragitto osservo le coltivazioni che si stendono sulle rive del fiume. Durante la stagione delle piogge il livello delle acque si alzerà di parecchi metri e le capanne che si vedono sulla riva dovranno essere spostate. Barche che trasportano tronchi di tek ed altre con merci provenienti dalla Cina finché si attracca a destinazione. Breve camminata fino alla maestosa Mingun paya della quale, in realtà, non resta che la base in mattoni, con enorme crepe dovuto al devastante terremoto del 1838. Il re Bodawpaya aveva in mente di farle raggiungere i 150 metri (tre volte la sua altezza attuale) e la costruzione  fu avviata nel 1790 con una forza lavoro composta da schiavi e prigionieri di guerra, ma alla morte dello stesso l’opera restò incompiuta. Ogni lato dell’enorme base misura 72 metri e la percorro tutta, impressionato dalla enormi fenditure che l’hanno danneggiata. Degli scalini salgono fino in cima da cui si gode un panorama impareggiabile sul fiume e la pianura costellata di templi. Sceso, ci dirigiamo alla costruzione  dove è la Minguin bell, anch’essa ordinata dallo stesso re. E’ una gigantesca campana di bronzo da 90 tonnellate considerata la più grande e perfettamente integra al mondo. A Mosca ce n’è una un po’ più grande, ma non così ben conservata. Ultima puntata alla Hsinbyume paya. Le sette terrazze bianche e curvilinee intorno allo stupa rappresentano le catene montuose che circondano il monte Meru (la montagna che credono si erge al centro dell’universo). Facciamo ritorno a Mandalay dove c’è il tempo per entrare al Palace & Fort, l’edificio simbolo della città. Nonostante tutto il complesso sia andato distrutto durante la guerra, la ricostruzione che data gli anni novanta, cerca di dare un idea di come fosse in origine. Oggi è sede di musei e di abitazioni di militari. Tutto intorno, una immensa cinta fortificata lunga 3.300 metri, alta otto e protetta da un fossato largo 70. Pranziamo al Too Too restaurant, dove si gusta la autentica cucina birmana. Da pentole si sceglie quello che si vuole e te lo portano in tavola. Nonostante sia portato ad apprezzare le specialità dei luoghi che visito, la cucina del Myanmar non ha davvero molto da offrire. Mi spiace affermarlo, ma è quello che penso. Trasferimento successivo al lontano aeroporto di Mandalay dove parto con ben due ore di ritardo, destinazione Bagan, dove sono atteso da un altro autista che mi porta direttamente in albergo. Ormai è tardi e, sistemate le mie cose, vado a cenare nelle vicinanze in attesa di conoscere l’indomani la mia ultima guida di Myanmar, colui che mi porterà in giro a conoscere il più grandioso sito i templi del paese.  Il loro numero è pari a quello delle cattedrali medievali di tutta Europa. I re di Bagan si adoperarono a costruire magnifiche strutture e produrre oltre 4.400 templi in appena 230 anni, che terminò solo dopo la calata dei mongoli nel 1287. Cominciamo con la Dhammayazika paya, oggi addobbata a festa. A Bagan, ognuna delle 40 pagode più famose, celebra una festa durante la quale i fedeli offrono in regalo cesti con cibo e danaro ai monaci. Una moltitudine di fedeli sta mangiando noodles di riso e zuppe di verdure, seduti sui prati adiacenti la costruzione religiosa. La paya risale al 1196 e possiede una campana dorata. Sulla sommità ci sono cinque piccoli templi, ciascuno con un immagine del Buddha, distribuiti intorno alle terrazze che salgo, ammirando un panorama impareggiabile della pianura meridionale costellata di templi. Una volta scesi visitiamo il villaggio vicino di Minnanthu, dove alcune donne stanno filando il cotone e quindi ci si dirige al Leimyethna pahto, costruito nel 1222, imbiancato a calce, con interessanti affreschi alle pareti discretamente conservati e una cupola in stile indiano come quella più famosa di Ananda. Quindi il Payathonzu, complesso formato da tre santuari interconnessi. Imperdibile per chi voglia ammirare da vicino degli affreschi del XIII secolo. Dopo il Tayok Pye paya, con un pregevole sikkara apicale, ci si dirige nella zona di Nyaung U dove è la superba Shwezigon paya, il principale sito religioso di Bagan, famoso per il suo legame con i 37 Nat. La superficie dorata dello zedi (come gli stupa sono chiusi - vuoti all’interno mentre i pahto - templi sono aperti dentro e visitabili) sorge sulla sommità di tre terrazze degradanti, mentre la base è decorata da pannelli smaltati che raffigurano scene della jataka (storie della vita passata del Buddha). Di fronte alle gradinate della terrazza ci sono  quattro piccoli santuari, ciascuno dei quali ospita una statua del Buddha in bronzo alta quattro metri. E sono le più grandi statue bronzee sopravvissute a Bagan. Prossimo è il Gubyaunge, con splendide decorazioni in stucco scolpite sulle pareti esterne. Molte piastrelle affrescata sono state rubate dai tedeschi durante la guerra e ora si trovano ai musei di Berlino. Proseguiamo con l’Htilominlo, alto 46 metri e costruito nel 1218. La struttura a terrazze poggia su una base quadrata di 42 metri per lato intorno alla quale si possono ancora vedere frammenti delle sculture in stucco oltre ai raffinati bassorilievo scolpiti sulle porte. E’ giunta l’ora di pranzo e lo farò nel più affascinante ristorante che mi sia capitato di visitare nel Myanmar: il Green Elephant. Mi siedo ad un tavolo all’aperto dove la bella giornata di sole inonda di luce il serpentone argenteo dell’Irawaddy di fronte a me. Due barche con pescatori gettano le loro reti mentre gusto uno straordinario cat fish intero, fritto. Indimenticabile! Ricominciamo le visite nella zona di new Bagan con la Seinnyet Nyima paya e Seinnyet Ama pahto, l’uno di fronte all’altro. Salgo fino in cima con difficoltà. La parte apicale del tempio è di recente costruzione dopo il devastante terremoto. Ora è la volta della Manuha paya, di fronte all’edificio ci sono tre Buddha seduti e sul retro uno disteso nella posizione di Nirvana (la testa è posizionata a nord perché è così che l’aveva nel momento topico). Si notano anche i piedi paralleli mentre nei Buddha reclinati gli stessi sono accavallati (durante il sonno). Nelle vicinanze, un bel tempio stile Mon (incurvato in alto) con bei pilastri in arenaria intarsiata. Quindi, in zona Myinkaba, l’altro Gubyaukgy dove all’interno, nel suo percorso circolare, la mia guida mi mostra con una torcia la bellezza di alcuni affreschi rimasti integri raffiguranti immagini della jataka. Avanti ancora al Thatbynnyupahto, il più alto di Bagan ma non certamente il più bello. Purtroppo gli affreschi sono in cattive condizioni.  Dopo la visita all’unica statua in arenaria originale del Buddha, sita in un piccolo tempio, ci si dirige al Than Daw Giyar e quindi alla Shwegugyi con un bel sikkara a forma di pannocchia. Dalla cima si ammira una superba vista sull’Ananda temple che visiterò subito dopo. E’ uno dei templi più belli, più grandi e meglio conservati di Bagan. Il suo imponente hti (pinnacolo) dorato si ammira da tutta la pianura. Perfettamente proporzionato, si ritiene sia stato costruito intorno al 1100. Nel 1990, in occasione del suo 900° anniversario, le sue guglie furono rivestite d’oro. I varchi d’accesso conferiscono alla struttura la forma di una croce greca e ognuno è sormontato da uno stupa. Al centro, rivolte all’esterno, campeggiano quattro grandi statue del Buddha in posizione erette alte dieci metri. Ci sono due percorsi circolari concentrici, quello più interno era destinato ai monaci e ai reali, mentre l’altro al popolo. Noto molte cassette per le elemosine con scritte che ovviamente non intendo e chiedo spiegazioni. La guida mi spiega che ognuna ha una sua specifica destinazione: per il rivestimento in foglie d’oro, per l’elettricità, per le ristrutturazioni, per i monaci etc etc. Ormai è pomeriggio inoltrato. La giornata è stata interessantissima e mi ha fatto conoscere la maggior parte degli edifici religiosi di questa affascinate pianura. E’ ora di concludere in bellezza recandomi alla Shwesandaw paya, più nota come la pagoda del tramonto. La sua elegante struttura bianca a forma piramidale è articolata in cinque terrazze che culminano in uno stupa circolare sul quale mi reco per ammirare il sole che se ne va dormire, dipingendo di rosso la pianura sottostante. Albergo, cena in un ristorante anonimo nei pressi e quindi mi ritiro a dormire. Domani dovrò svegliarmi presto. L’autista infatti mi verrà a prendere alle 6.30 portandomi all’aeroporto per il mio volo delle 7.45 destinazione Yangon, dove atterro alle 9,35 dopo uno scalo a Mandalay. Rivedo la mia prima guida  a cui chiedo di riportarmi alla straordinaria Shwedagon paya. Dopo averla ammirata il primo giorno nello splendore della luce artificiale, voglio ora contemplarla con la luce solare. Ci resterò per più di un ora, osservando con attenzione i particolari delle quattro sale di adorazione, della campana, dello stupa dorato degli anziani per poi dirigermi verso la Sule pagoda. Non in tutte le città la rotatoria più importante della rete stradale urbana è occupata da un tempio dorato  vecchio di duemila anni. Come molti altri stupa è stato ricostruito nel tempo più volte. Purtroppo non posso ammirare il suo famosa zedi dorato, dato che è coperto per consentire la ricopertura con altrettante foglie del prezioso metallo. Posso però camminare lungo il percorso interno godendo delle quattro sale di preghiera sostenute da piloni in tek intarsiato. Nei pressi della Sule ci sono la City Hall, il palazzo comunale ricostruito più volte, la Baptist church edificata nel 1830 che visito, ma di nessun interesse e quindi l’High Court building. Ci dirigiamo ora verso la periferia, la zona ricca della metropoli birmana dove sostiamo per il pranzo al Tharin restaurant gustando un pollo al miele. Bene, il mio soggiorno in Indocina è terminato. Ora partirò verso Singapore con un volo della Silkair e in seguito ritornerò alla mia fredda Italia, conservando però dentro il mio scrigno misterioso, un cumulo di esperienze che non potranno che migliorare ulteriormente il mio bagaglio personale. Impossibile però non citare, sorvolando la grandiosa baia di Singapore, la straordinaria cartolina che mi si presenta nella sera. Migliaia di luci provenienti dalle strade, dagli edifici illuminati, dai grattacieli, dalle decine e decine di imbarcazioni ancorate nella baia formano un quadro a dir poco entusiasmante. Raramente ricordo di aver ammirato un panorama notturno di così abbagliante bellezza. Da sentirsi il cuore che pompa tutta la sua gioia. E non ne ho visti pochi!!!

 

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