2024  INDIA - LADAKH

Ladakh (la regione degli alti passi di montagna)

Un viaggio in Ladakh, nell’estremo nord indiano, non è solo l’occasione di immergersi nel mondo buddista dei vari, bellissimi monasteri presenti, ma è allo stesso tempo un continuo, incredibile susseguirsi di altissimi passi di montagna. Percorrendo le sue valli, si resta incantati dallo stupefacente succedersi di ambienti incontaminati, panorami montani sempre differenti dove si vorrebbe immortalare in migliaia di fotografie gli strabilianti scorci che la natura di questo luogo gli ha così generosamente elargito. Mio merito, è stato quello di aver costruito un itinerario coi fiocchi, dopo aver studiato per molto tempo i monasteri più belli da visitare, le valli più interessanti e, coadiuvato da un valido driver locale, sono riuscito persino a convincerlo a spingersi dove nemmeno lui era mai stato, un passo di montagna che ritenevo quasi impossibile da raggiungere, dato il poco tempo a disposizione, ma c’è stata subito sintonia fra noi, e alla fine ce l’abbiamo fatta. In completa solitudine, in un silenzio celestiale, ci siamo abbracciati felici, all’Umling la pass, (5.799 metri), il più alto passo al mondo. Ma ora andiamo al resoconto di questo incredibile e faticosissimo viaggio.

8/9/2024 – Parto dall’aeroporto di Milano Linate alle 9.00 con un volo della Lufthansa, che mi porta a Francoforte, dove salgo su un altro volo della stessa compagnia per New Delhi dopo un attesa di cinque ore. Dopo altre interminabili otto ore, ne devo attendere altre sei prima di imbarcarmi sul volo della Vistara, che alle 8.40 atterra al Kushok Bakula Rimpoche di Leh, capitale di questa regione nell’estremo nord indiano, a 3.524 metri.

9/9/2024 – Bisognerebbe starsene un po’ tranquilli, il primo giorno, acclimatarsi, perché a queste altezze, il mal di montagna è un rischio presente, e infatti, quando all’uscita faccio la conoscenza del mio driver, Lobzang, e lo informo della mia intenzione di essere portato immediatamente allo Shanti stupa, invece che allo Tsaskan hotel che ho prenotato per la prima notte, resta un po’ interdetto, ma impiegherà poco a comprendere del mio desiderio di sfruttare al massimo il mio tempo a disposizione. Il percorso è comunque breve, e un quarto d’ora dopo, eccomi ad ammirare questo stupa che troneggia sulla città di Leh. Fu costruito nel 1991 dal buddista giapponese Bhikshu. E’ diventato un'attrazione turistica non solo per il suo significato religioso, ma anche per la sua posizione che offre viste panoramiche sul paesaggio circostante. Per me risulta semplicemente una “turistata” sacrificabile, ma permette di identificare, dall’alto, come poi muovermi nella città sottostante. Ridiscendiamo in città e mi faccio portare al Sankar gompa (monastero). Purtroppo lo potrò ammirare solo dal giardino interno, dato che le sale sono aperte solo al mattino presto e alla sera. Pazienza, cambio dei soldi nelle locali rupie e quindi al Tsaskan, dove sistemo le mie cose, mi siedo sul letto dove mi sembra di essere appena uscito da un frullatore. Riprendo conoscenza, dopo una sciacquata al viso e ridiscendo in strada. L’hotel è in zona centrale, e mi ci vuole poco per raccapezzarmi. La città è situata nel Ladakh, divisione dello stato federato indiano del Jammu & Kashmir. Di circa 27.000 abitanti, qui buddisti e musulmani convivono pacificamente, dando un esempio di rispetto reciproco fra culture diverse. Percorro le vie principali del centro, ricco di negozi di vario genere, fra i quali molti dedicati ai turisti e dove è presente la Jama masjid, la moschea sunnita. Rimane proprio all’incrocio delle due vie principali del centro storico. L’esterno è di piacevole impatto, ma la sala della preghiera è anonima. Esco e mi inoltro nelle viuzze di old Leh, da dove comincio a salire, lungo stretti vicoli, su, e ancora su, fino a raggiungere il Leh palace. L’altitudine, la stanchezza cominciano a presentarmi il conto, ma voglio assolutamente visitare ogni luogo meritevole di questa città. E un ex palazzo reale, costruito sul modello del Potala di Lhasa, in Tibet, ma dal XIX secolo, la famiglia si trasferì nel palazzo di Stok. La struttura risulta un po’ in rovina, anche se una spedizione archeologica indiana ha cercato di ristrutturarlo. Internamente non c’è un gran che da vedere, ma il panorama che si gode dall’ultima terrazza dà una visione completa della città sottostante e spazia sino alle alte montagne che le fanno da corona, tra le quali spicca lo Stok Kangri, 6.153 metri. Uscito dal palazzo, prendo un sentiero in salita che mi porta, dopo un indicibile fatica e rischi notevoli di rovinose cadute (solo colpa mia, per aver sbagliato il tragitto) al castello di Tsemo. Anche qui, nulla di che, perciò riguadagno il basso e mi inoltro all’interno del Tibetan refugee market, un colorato mercato artigianale gestito da rifugiati tibetani di lunga data, molti dei quali fuggirono in Ladakh più di 50 anni fa, in seguito all'occupazione cinese del Tibet. La maggior parte dei rifugiati è impegnata nel commercio, nei ristoranti, oltre che nel lavoro agricolo. Sono stravolto e torno in albergo a riposare, per poi uscire a cenare al più famoso ristorante di Leh, il The Tibetan Kitchen, dove gusto il piatto principe della cucina tibetana: i momo, nella versione ripiena di pollo. Cucinati al vapore, o fritti, sono una sorta di ravioloni ripieni di carne macinata (pollo, agnello o solo verdure). Per oggi ho già dato, ma il vero viaggio comincerà da domani. Appuntamento con Lobzang alle 6.30.

10/9/2024 – Usciamo da Leh ed entriamo nella valle dell’Indo, infatti dopo poco eccolo il grande fiume, il terzo più lungo di tutta l’Asia (3.180 km.). La sua sorgente si trova in Tibet, nei pressi del famoso monte Kailash. Entra in Ladakh per poi proseguire la sua corsa nel Baltistan pakistano, regione da me già visitata anni fa, per poi sfociare nel mar Arabico. Prima sosta al Gurdwara Pathar Sahib (la porta del Guru), fu costruito nel 1517 per commemorare la visita alla regione di Guru Nanak Dev, il Guru fondatore della fede Sikh. Un luogo che non mi dice nulla, perciò proseguiamo, con i paesaggi montani che diventano sempre più interessanti e variegati, fino a Magnetic Hill, secondo me un’altra “turistata”. La disposizione dell'area e i pendii circostanti creano l'illusione ottica di una collina. La strada è in realtà in discesa e se si mette in folle la vettura, infatti, pian piano si muove in discesa. Poco più avanti un altro punto molto fotografato, la confluenza del fiume Zanskar nell’Indo, con i due colori diversi delle acque che non si fondono che dopo diverse decine di metri. Finalmente giungiamo al primo dei monasteri inseriti nel mio programma, quello di Likir, ma prima di descrivere, naturalmente in modo sintetico i punti salienti di ognuno, vorrei dare qualche notizia sulla dottrina che ha generato tutto ciò. Penso che sia interessante conoscere qualcosa sulle stanze dei monasteri, la funzione a cui sono dedicate e l’iconografia che li impreziosisce. Ma non si può iniziare senza dire qualcosa sul suo fondatore: il Buddha (Siddhartha Gautama). Secondo la leggenda, dopo la nascita fu esaminato da un santo uomo, Asita, che gli predisse un futuro di grande sovrano del mondo o della religione. Ma suo padre, Shuddodhana, era preoccupato e lo rinchiuse in una sorta di gabbia dorata, crebbe con tutti i lussi e anche con molti talenti e sposò Yashodhara, ma all’incirca durante la nascita del suo unico figlio, Rahula, Gautama ebbe il desiderio di vedere il mondo. Suo padre allora organizzò che Gautama andasse al villaggio, ma prima fece in modo che tutte le brutture di esso fossero celate ai suoi occhi. Il progetto però fallì e durante le sue quattro uscite fu investito dal problema della sofferenza, della malattia e della morte. A 29 anni decise di lasciare il palazzo e vagare per il mondo in cerca di una soluzione per uscire da quella sofferenza. Si unì ad alcuni maestri yogin, ma dopo riconobbe che questo non lo avrebbe portato ad annullare il ciclo delle rinascite come voleva, doveva trovare il metodo dentro di sé. Arrivò quasi alla soglia della morte, dopo tutte le privazioni, ma alla fine, nello stato di Bihar, si sedette sotto un fico (bodhi) a meditare finché avesse trovato la via. E la raggiunse, ora aveva ottenuto il suo scopo, e pensò a come fare in modo che questa sua realizzazione fosse patrimonio anche di altri. Rifletté e decise di dedicarsi all’insegnamento (durante 45 anni) e pian piano si formò una sorta di comunità (sangha) di devoti buddisti. Nacquero in seguito i primi alloggi dove ricchi donatori fecero sì che questi buddisti non stessero all’addiaccio. Dopo la sua morte e per i seguenti mille anni la sua dottrina prese a dividersi in tre diverse forme dando vita al Buddismo “Hinayana”, il buddismo fondamentale (con dei rituali e forme più vicine a quelle insegnate da Buddha), il “Mahajana”, che presentò un nuovo apparato per accostarsi al grande progetto dell’illuminazione. Infine il Vajrayana del quale però non parlerò, dato che in questa parte di mondo si è sviluppato il solo Mahayana. La differenza sostanziale tra la corrente Hinayana e Mahayana è che nel primo, si cerca di ottenere la liberazione individuale dal “samsara” (il ciclo delle rinascite), per il proprio beneficio. La porta di entrata è la rinuncia e la saggezza. E’il buddismo dei primi secoli. Nel secondo è ottenere lo stato di Buddha con una duplice intenzione, per il beneficio di tutti gli esseri senzienti, e anche il proprio divenendo un “bodhisattva”. Naturalmente, come capitò anche per il cristianesimo, lo stesso Mahayana si frammentò, dando vita a quattro scuole del mondo tibetano, ma non vorrei tediare troppo con la parte nozionistica e penserò in seguito a implementare qualche dettaglio, volta per volta, durante lo svolgersi delle visite. Eccomi quindi al monastero di Likir (3.700 metri), risalente in gran parte al XIV secolo. E’ un gompa (monastero) influente, che controlla anche il monastero di Alchi, il cui abate è un cugino del Dalai Lama. Elemento distintivo è la grande statua dorata di Maitreya, terminata nel 1999 ed alta ben 23 metri, alle spalle del monastero. I gompa della corrente Mahayana si riconoscono da quelli della Hinayana dal gran numero di affreschi e di personaggi che li arricchiscono. Nella stragrande maggioranza dei casi è la stanza della preghiera e delle assemblee, Dukhang, la più importante e venerata. Come seconda viene la Gonkhang (sala, o tempio delle divinità protettrici). Sempre, nelle stanze più importanti si accede da una sorta di cortile (una zona che si presta molto alle fotografie). Inizio dalla Dukhang cercando già da subito di inquadrare i punti iconografici comuni a tutti i monasteri che incontrerò. E, come negli altri casi, mi fermo a contemplare le rappresentazioni iconografiche all’ingresso della sala delle preghiere. Sono i cosiddetti “Lokapala”, i guardiani dei quattro punti cardinali. Si trovano due per lato, a fianco della porta d’entrata. Il loro compito è duplice, sia di guardia del corpo del Buddha, che di osservatori del mondo. E li riconosco subito, osservandoli attentamente, ma ne illustrerò meglio in seguito. Il monastero presenta due sale di preghiera principali, la più antica delle quali, situata alla destra del cortile centrale, è caratterizzata da sei file di posti riservate ai lama e un trono per il lama capo onorario di Likir. All’interno vi sono le statue di Bodhisattva, Maitreya e di Tsongkhapa (fondatore dei berretti gialli), infatti questo gompa appartiene alla corrente Mahayana dei “gelupka”, la più diffusa. La loro divinità principale è Yamantaka, il signore distruttore della morte. Entrando ci sono, infatti, cumuli di vestiti gialli che i monaci si mettono durante la “puja” (il momento della preghiera). L’altare ha al centro un grande Buddha Sakyamuni (da Sakya, l’eminente famiglia di una delle piccole repubbliche tribali, di cui faceva parte Buddha), e Muni (saggezza,) quindi “il saggio degli Sakya”, affiancato dai suoi principali discepoli: Shariputra e Moga-llana. Sulla sinistra ci sono diversi bei chorten (stupa) incastonati con pietre preziose. Questa è comunque una (la più vecchia) delle due sale di preghiera presenti, la più accattivante. Quindi entro nel Gonkhang, tempio delle divinità protettrici, che si trova al piano superiore. Sono molte le figure affrescate alle pareti e rappresentano una cosmogonia così variegata che richiederebbe mesi di studio per penetrarla meglio. Si pensi che Makahala, la versione buddista del Bhairava scivaìta ha ben 60 rappresentazioni. Si capirà bene la difficoltà di comprenderne i vari ruoli e poteri (c’è quello a 4 braccia, quello a 6 braccia, quello con la faccia bianca invece che nera!!). Da uscirne matti, per questo motivo vorrei cercare di prenderla un po’ alla larga, diciamo dalla periferia. Per finire, la nuova Dukhang, caratterizzata da un immagine molto bella del bodhisattva della compassione Avolokitesvara, (ricordo che è colui che, raggiunto il nirvana, si impegna per gli altri), il più venerato della scuola Mahayana. 1000 braccia e 11 teste, che fa di tutto per raggiungere tutti gli angoli del mondo e che ha mani sufficienti per intervenire ovunque. Vi è anche un museo che custodisce interessanti thangka (dipinti buddisti su cotone o seta). Tutta la visita si è svolta senza incontrare un turista, magnifico. La giornata prosegue con il monastero di Alchi (3.100 metri). Quasi sempre, nelle varie sale dei monasteri è tassativamente vietato fotografare, qui è addirittura obbligatorio lasciare macchina fotografica e cellulari nelle apposite cellette, in uno stanzino fuori dal gompa. Anche questo è un monastero della corrente Mahayana, gelupka, e il suo lama principale è persino il fratello minore del Dalai Lama. A differenza di tutti gli altri che visiterò, questo gompa si trova nascosto nelle stradine del piccolo villaggio di Alchi. Nel complesso ci sono tre santuari principali: la Dukhang (sala delle assemblee), il Sumtsek e il tempio di Manjushri (è il bodhisattva più antico della corrente mahayana), tutti risalenti tra l'inizio del XII e l'inizio del XIII secolo. Entro per primo nel Sumtsek, una struttura di tre piani con un porticato intagliato in legno e pregevoli dipinti di piccoli Buddha. Le colonne in legno, le facciate, i muri, le immagini in argilla e i dipinti all'interno del monastero sono stati realizzati da artisti del Kashmir. L'immagine di Maitreya, la più grande per dimensioni, è divinizzata sulla parete di fondo e fiancheggiata dalle immagini di Avalokiteshwara alla sua destra e Manjushri alla sua sinistra (sono due bodhisatva). Mi è obbligo dire che Maitreya è il prossimo Buddha, successore di Siddharta Gautama, “il Buddha del futuro", la cui rinascita è attesa dai buddisti. Secondo le tradizioni buddiste sarebbe stato Gautama stesso a predire il nome del proprio successore, sostenendo di non essere il primo Buddha, e di non essere nemmeno l’ultimo. Il Manjushri temple risale al 1225 e vede una statua di Manjushri, il Buddha della Saggezza. E’ costruito attorno alle quattro immagini centrali di Manjushri (seduto schiena contro schiena), ma il tempio non è ben conservato. Infine il Dukhang, il cuore del complesso del monastero. La veranda colonnata conduce alla sala da un cortile anteriore e affreschi di mille Buddha sono raffigurati nel passaggio. Altri si possono ammirare tutto intorno. Ci sono altri due templi che però non meritano menzione particolare. Proseguiamo con il successivo monastero di Rizong (2.988 metri), ricavato in un anfiteatro naturale, incastonato tra superbe montagne. Impone delle regole molto ferree ai suoi monaci che non possono possedere altro che i propri vestiti e qualche libro. Ai monaci non è consentito lasciare il monastero, tranne in caso di malattia. Non devono toccare nulla maneggiato dalle donne (comprese le proprie sorelle o quelle di altre). Prima dell'alba o dopo il tramonto, non possono lasciare la loro cella, se non per portare l'acqua. Qui ci viene in visita quando viene in Ladakh il Dalai Lama. Il complesso si sviluppa principalmente attorno a tre sale affrescate, anche se la sacred room era chiusa. Nel Dukhang c’è una grande statua del Buddha Shakiamuni, fiancheggiata a destra da altri idoli. A sinistra Avalokiteshvara e Mahakala, qui rappresentato a quattro braccia, che simboleggiano ciascuna un karma (secondo il buddismo, si crea il karma su 3 livelli: attraverso i pensieri, le parole e le azioni. Le azioni, ovviamente, hanno un impatto maggiore delle parole) positivo, pacificare i conflitti e risolvere i problemi; aumentare la saggezza e le qualità positive; portare le persone verso il “dharma” (gli insegnamenti del Buddha, per la giusta via); dileguare la confusione, il dubbio e l'ignoranza. Nel santuario Thin-Chen sono raffigurati affreschi della storia della vita del Buddha Shakyamuni. Un paio di chilometri più in basso, in corrispondenza della zona più verdeggiante, sorge l’ala femminile del monastero chiamato, convento Julichen, subordinato al Rizong. Le 26 monache che risiedono qui sono accudite dal Consiglio di amministrazione del monastero principale. Partecipano pienamente alle attività economiche e devono lavorare tutto il giorno per sostenere pienamente il gompa. Si dice che le giovani monache più istruite e sincere abbiano intrapreso il curriculum religioso di meditazione e filosofia tibetana, mentre le monache più anziane lavoravano nei campi per promuovere l'attività economica del monastero. Sosta per consumare un dhal makhani (lenticchie in brodo con un po’ di fagioli) con il loro pane chapati. La giornata si è svolta nel migliore dei modi, immerso in panorami montani sempre diversi, fiancheggiati dal fiume Indo. Giungiamo in una zona paesaggisticamente incantevole chiamata Moonland. Sono presenti delle montagne scolpite nel Karakorum che richiamano appunto al panorama lunare. E’ davvero un luogo da favola, che chiama alla sosta ogni persona che si trova a passarvi. Dopo uno dei check point, per il controllo di passaporti e permessi, ora ho persino l’occasione di visitare anche il monastero di Lamayuru (3.510 metri), che era in programma domani. Non so come, ma sta già montando, dentro di me, un idea che in Italia ho reputato pressoché impossibile, ma che a questo punto, se riuscirò a mantenere questo vantaggio nell’itinerario, potrebbe consentirmi di tentare un impresa davvero sbalorditiva, impensabile. Vedremo nei prossimi giorni se tutto andrà come nei sogni, per ora penso solo al Lamayuru. In questo gompa si rappresenta la corrente Mahayana della scuola minore Drikung (all’interno della maggiore Kagyupa). Non mi addentro oltre. Lamayuru è uno dei più grandi monasteri buddisti, e ospita circa 150 monaci. La sala di riunione principale, Dukhang, si trova sul lato destro del cortile e il suo porticato offre ai visitatori una raffigurazione colorata dei guardiani dei quattro punti cardinali. Da segnalare inoltre diverse statue di Buddha che impreziosiscono gli spazi interni ed esterni, oltre a una piccola grotta dove si suppone che il mistico buddista indiano Naropa abbia meditato. Dopo una piccola donazione, mi ingrazio un monaco che mi consente di fare qualche foto alla sala, e persino alla stanzetta in fondo da dove proviene il suono ritmico del loro tamburo rituale, inframmezzato a delle litanie buddiste. Infatti, una volta entrato, seduto su una panca in fondo, un monaco anziano sta recitando dei mantra. La giornata è stata perfetta, ed è ora il momento di trovarmi un alloggio. A questo ci pensa Lobzang, che mi trova una camera nel Moonland hotel. Cena in albergo a buffet, con alcune portate di cibo indiano.

11/9/2024 – Dopo degli scrambled eggs e black tea, con chapati, per colazione, si parte alle 7.00, oltrepassando l’abitato di Lamayuru e abituandomi alla salita dei celebri passi nel Ladakh, affrontando i tornanti della strada che da Srinagar giunge fino a Leh. Saranno solo 15 chilometri, ma sufficienti per comprendere quello che mi attenderà nei prossimi giorni. Il Fatu la (la = passo) è ad una altezza di 4.108 metri, e qui si trova una stazione di trasmissione televisiva Prasar Bharati che serve Lamayuru. Ora è il momento del tragitto di ritorno lungo la medesima valle dell’Indo, riammirando gli stupendi paesaggi montani che già mi hanno accompagnato durante la giornata di ieri. Il mio programma prevede ora la visita al monastero di Basgo, che si trova nella parte alta del villaggio omonimo, ma purtroppo non c’è alcun monaco nella struttura e bisognerebbe scendere a cercare di avere delle chiavi per accedervi, ma mi sembra una soluzione da perdita di tempo, anche perché questo gompa non era proprio uno di quelli imperdibili, perciò decido di ripartire e di puntare al prossimo, il monastero di Pyang. Scende una fastidiosa pioggerella che però non mi impedisce la visita. Noto però che una sezione del gompa è chiusa con un poderoso catenaccio. Fermo un monaco che ne chiama un altro, il quale viene ad aprire. È la nuova sala della preghiera, la nuova Dukhang, perciò al primo impatto non mi regala emozioni particolari, ma è splendidamente affrescata, e a differenza delle altre Dukhang ammirate, qui ci sono rappresentate delle figure nuove, mai viste. C’è persino un immagine chiaramente di donna e chiedo ad un monaco chi fosse. Sorprendentemente mi racconta che intorno alla sala si descrive la vita del Buddha, dalla sua nascita alla morte, raggiunta la “moksha”, la liberazione dalla sofferenza e dal ciclo delle rinascite (Samsara). Quella donna non è altri che la madre del Buddha, e mai mi capiterà di vederla rappresentata un'altra volta. Sempre in senso orario, percorro tutta l’ampia sala, cercando di riconoscere più personaggi possibile, ma non è semplice, proprio per i motivi che il pantheon buddista è così vasto, che diventa un impresa davvero impossibile soddisfare tutta la mia curiosità. Giunto alla raffigurazione della morte del Buddha esco dalla sala, ammirando, a fianco della porta di ingresso, e ben affrescati, i quattro lokapala (i guardiani dei punti cardinali). Li cito ora. Sulla destra della porta ci sono Vaisravana (il guardiano del nord), seduto su un leone, con nella mano sinistra una mangusta (che si ciba di serpenti, simboli di avidità e odio). Di colore giallo, tiene nella mano sinistra uno stendardo. Vicino a lui è Virupaksa (guardiano dell’ovest). Il suo colore è il rosso, e tiene nella mano destra uno stupa e nell’altra un serpente. Sul muro di sinistra, invece, abbiamo Dhrtarastra (guardiano dell’est), il signore dei Gandharva (i musicanti celesti che suonano per gli Dei). E’ raffigurato con in mano un liuto. E. infine, il guardiano del sud, Virudhaka, con una sorta di proboscide che gli esce dalla testa. Sovrano degli spiriti maligni, è blu, colore simbolo di lussuria e vitalità. Sempre, insieme a queste rappresentazioni, si trova anche l’immagine della ruota della vita, il “Samsara”, la rappresentazione iconografica del ciclo continuo della vita. L’intera ruota viene rappresentata saldamente stretta tra gli artigli di Yama (il signore della morte). Risulta lungo descriverla, ma si notano le sei sezioni all’interno delle quali si entra se il proprio “karma” ha maturato una vita successiva di un gradino migliore, o peggiore. Visito anche la vecchia Dukhang con affreschi più sbiaditi, ma forse più apprezzabili. Si riparte verso un nuovo monastero, nei pressi di Leh. Si tratta dello Spituk (3.307 metri), anch’esso scenograficamente bellissimo. Dell’XI secolo, su una ripida collinetta, segue l’ordine del gelugpa (la corrente maggioritaria in Ladakh) ed ha all’interno un bellissimo cortile con, nella Dukhang (sala della preghiera) una statua con cappello giallo di Tsongkhapa il fondatore di questo ramo del Mahayana. Fuori dalla sala filmo dei monaci, impegnati nel rammendo delle loro “kesa” l'abito portato da tutti i monaci buddisti. Pasto veloce con un sandwich al formaggio e black tea, e via all’ultimo monastero della giornata, che nei programmi avrei dovuto visitare il penultimo giorno di viaggio, quando ci saremmo spinti fino al lontano lago Tso Moriri. E, a questo punto, la modifica del mio itinerario sta diventando davvero possibile, ma resta sempre l’incognito dell’opinione e della disponibilità del mio driver, Lobzang. Ma gliene parlerò dopo il gompa di Thiksey, dove circa 60 monaci vivono in questo che è uno dei più grandi monasteri del Ladakh. L’impatto visivo lascia senza parole, si sviluppa su 12 livelli comprendente anche una scuola, un albergo, un ristorante ed alcuni negozi. Ricorda vagamente il Potala Palace di Lhasa. Aderisce alla scuola maggioritaria dei gelugpa (i berretti gialli). Il monastero ha 10 templi, ma i più importanti, e quelli aperti, sono la Dukhang, il Gonkhang e il Chamkhang. Il Dhukang, all’estremità del cortile, è un tempio molto antico (XV secolo), con una grande camera a colonne. Le divinità guardiane “Lokapala” e la Ruota della Vita dipinta sul suo ampio portico d’ingresso, file parallele di sedili per i lama all’interno con thangka (è un tipo di dipinto realizzato su una superficie piana, ma che può essere arrotolato quando non ne è richiesta l'esposizione) e altri drappi di seta, inscritti con simboli religiosi, appesi al soffitto. Una grande immagine del Dalai Lama, sotto un baldacchino, è installata su un trono nella parte superiore della camera. La cappella sul retro è una piccola stanza misteriosa con un bellissimo Buddha Shakyamuni (il saggio degli Shakya, la tribù a cui apparteneva Buddha). Proseguo con il Gonkhang, il tempio delle divinità protettrici, dove ammiro un’enorme immagine di Yamantaka, il signore distruttore della morte. Di fianco c’è il Mahakala. Per finire il Chamkhang con la sua magnifica Maitreya, la più grande attrazione di Thiksey. La statua, alta 12 metri, raffigura quello che è considerato il “Buddha del futuro”. E’ realizzata in argilla, dipinta con oro, e domina la camera. E’ senza dubbio l’immagine più bella di tutto il Ladakh e fu completata solamente nel 1980 con il Dalai Lama che consacrò il tempio. La giornata termina così, è ora di tornare a Leh, allo stesso hotel della prima notte, ma ora è il momento di parlare con Lobzang del mio progetto dei sogni. Si deve sapere, che ogni turista che visita questa regione, ha come meta principale raggiungere il passo di Khardung la, che viene considerato il più alto transitabile al mondo, raggiungendo l’incredibile altezza di 5.602 metri. Su una stele è persino scritto chiaramente questa sorta di primato. Ed è per questo che attira migliaia di persone, specie indiani. Tuttavia, informandomi prima della partenza, avevo scoperto che non è più così. Nel 2017, la Border Roads Organisation of India, ha costruito una strada asfaltata di 52 chilometri tra i villaggi di Chisumle e Demchok, valicando un passo, l’Umling, ad una altitudine pazzesca, 5.799 metri e superando gravi sfide per la sua costruzione, con temperature invernali che scendono a –40°C e livelli di ossigeno inferiori del 50 % rispetto al livello del mare. Mostro sulla cartina, il nuovo tragitto, che prevedrebbe, invece che l’overnight a Kurzok, sul lago Tso Moriri, proseguire per altri 100 chilometri fino al villaggio di Hanle, davvero ai confini del mondo. E la mattina seguente, di buon ora, coprire gli 80 chilometri che ci consegnerebbero alla gloria, dato che nemmeno lui c’è mai stato. Ovviamente sotto promessa di una lauta mancia, ma forse non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno, perché lo vedo eccitato anche lui. Bene, il progetto è stato avallato, ora bisogna solo sperare che il meteo, o qualche altro impedimento, si frapponga a questo sogno. Tornati a Leh, riposerò un poco, per poi cenare al Lamayuru restaurant con un'altra specialità tibetana, la “thupka”, l’alimento base della gente del Ladakh. E’ una sorta di zuppetta con spaghetti tagliati a mano, varie verdure e dei tocchetti di carne a scelta, come pollo o montone. Di notte, nel silenzio della mia camera d’albergo, non farò che pensare al passo Umling la, anche se domani mi aspetta la salita al passo Khardung la, a 5.602 metri. Qui si parla di altezze sbalorditive, che possono anche provocare gravi conseguenze. Il mal di montagna, si sviluppa ad altezze superiori a 3.000 metri, a causa di un mancato adattamento dell’organismo alle elevate altitudini. Una repentina salita può provocare improvvise cefalee, fatica, vertigini, senso di stordimento, nausea e persino vomito. A questo punto è opportuno scendere immediatamente di quota, per non incappare in problemi peggiori. Proseguire un'ascesa in tali condizioni sarebbe estremamente rischioso, con rischio di edemi polmonari.

12/9/2024 – Mi sveglio con una sorta di preoccupazione latente. Come affronterà il mio fisico i 5.602 metri del Kardhung la? Nei miei quattro trekking, fatti in gioventù, avevo già raggiunto altezze notevoli come i 5.895 metri del Kilimanjaro, i 5.644 metri del Kala Pattar, di fronte all’Everest, e poi il Ruwenzori, a 5.109 metri e i 5.900 metri del rifugio Berlin sull’Aconcagua. Ma sono trascorsi molti anni, e poi a quelle altezze ci sono giunto gradualmente, con l’opportuna acclimatazione. Questo a cui mi sto accingendo è tutta un'altra storia. Vedremo! Intanto si parte, lungo i 38 chilometri che ci separano dal passo. La strada sale, prima piano piano, poi con ripidi tornanti. Si è circondati, direi come fagocitati in un ambiente da alta montagna. Per i primi 20 chilometri circa la strada è asfaltata, ma stretta, ed è meglio non guardare i burroni che inghiottirebbero gli autisti disattenti. Questa strada è la porta di accesso alla valle di Nubra e Shyok, si incontrano molte bandiere di preghiera tibetane. Si sale, si sale sempre di più, e ora si prosegue su fondo sconnesso, si sobbalza in continuazione, mentre decine e decine di motociclisti fanno il nostro stesso percorso. Come ho già riferito, il Khardung la è un mito per migliaia di indiani, e non solo. Si incontra qua e là qualche frana, magari caduta pochi istanti prima, la montagna è estremamente friabile, e talvolta si incontrano sassi caduti sulla strada, o macigni, poi spostati dai molti escavatori presenti lungo il percorso. La neve comincia a farsi vedere, non solo ad imbiancare le cime presenti, ma anche a lato della strada, finché, finalmente, eccoci arrivati: il Khardung la, 5.602 metri. Il panorama è mozzafiato, e per fortuna c’è poca gente, ma fra un paio d’ore si riempirà di motociclisti e gruppi di turisti, che si accalcheranno vicino alla stele che celebra il passo come il più alto al mondo. La strada è stata costruita nel 1976, e aperta al pubblico solo nel 1998. Me lo godo tutto, facendo foto e video, e poi si riparte, discendendo verso North Pullu, su un fondo stradale a due corsie ben asfaltato e più ampio. Ci concediamo la colazione e proseguiamo fino a fondo valle, dove scorre lo Shyok river. Da questo punto, la strada diventa pessima, sconnessa e siamo costretti a fermarci a causa di una frana che ha riempito di massi la carreggiata. Due escavatori stanno spostando i macigni, per liberare la strada, con tutte le auto che attendono in coda. Anche più avanti saremo costretti ad una seconda sosta forzata, fino a giungere nei pressi del monastero di Diskit, che però sta per chiudere. Decido quindi di visitarlo più tardi, quando riaprirà alle 14.00. Nel frattempo andremo a Hunder, ex capitale del regno di Nubra, ormai solo ricordi del passato. Oggigiorno questo minuscolo villaggio è famoso per le sue incredibili dune di sabbia, meta di decine di viaggiatori, curiosi di ammirare questa straordinaria particolarità, in un ambiente di alta montagna. Siamo ad una altezza di 3.160 metri e questo è il deserto più alto e freddo del mondo. Ma c’è anche un altro motivo, e non secondario al primo: la presenza di decine e decine di cammelli della Battriana, animali provenienti dall’Asia centrale, con due gobbe, equamente sviluppate. A Hunder vengono anche utilizzati per trasportare i turisti sulle dune qui vicino. Mi addentro fra di loro, immortalandoli in foto e video, per poi salire delle dune ed ammirare il paesaggio che si mostra dinnanzi ai miei occhi, davvero entusiasmante. E’ ora di pranzo e ci rechiamo al villaggio vicino di Diskit. Dopo cinque viaggi in India, non ne posso davvero più dei loro cibi speziati, perciò ordino una pizza, da dividere a metà col mio driver. Era una semplice margherita, ma persino questa mi infiammerà, seppure in modo minore il palato, non vedo l’ora di ritornare alla sana cucina mediterranea. E’ giunta l’ora di entrare al monastero di Diskit (3.150 metri), appena sopra le pianure alluvionali del fiume Shyok. Appartiene all’ordine dei gelugpa (berretti gialli) e si contraddistingue per una serie di edifici tibetani squadrati sulle pendici di uno sperone roccioso. E’ stato fondato da un discepolo di Tsongkhapa (il fondatore dei gelugpa). L'accesso avviene attraverso una rampa di scale di pietra, che conduce alla sala di preghiera del monastero che, come nel Gonkhang non mi offre molto di diverso dalle statue di Buddha, thangka e divinità protettrici. Ripresa l’auto, raggiungiamo la vicina statua del Buddha Maitreya, alta 32 metri, costruita nel 2006 e consacrata dal Dalai Lama nel luglio del 2010. E’ grande e grossa, ma priva di alcun pregio artistico. Torniamo indietro per un tratto, per poi salire verso Sumur, fiancheggiando a tratti il Nubra river. Il gompa di Sumur non mi regalerà momenti significativi, e dopo una visita sommaria, prendo possesso della mia camera nell’albergo trovatomi da Lobzang. Cena vegetariana e un buon sonno ristoratore.

13/9/2024 – Lasciamo Sumur alle 6.30, percorrendo sempre la Nubra valley a ritroso. La pista è in pessimo stato e si snoda in mezzo al nulla, tra sobbalzi continui. Ogni tanto qualche pulmino di turisti, ma ad un certo punto noto che ci sono dei mezzi incolonnati. In pratica, un camion che trasportava una escavatore si è insabbiato e non c’è verso di soluzione alternativa. Si deve attendere che il mezzo di soccorso che l’autista ha chiamato giunga a liberarlo dalla sabbia. Così avviene e possiamo ripartire, raggiungendo la località di Agyam. All’ultimo momento, una decina di giorni prima di partire, avevo mandato per mail un piccolo cambiamento di programma. Invece di tornare dal Khardung La, avevo optato per discendere verso Leh da un'altra valle, superando un altro passo. Questa decisione si rivelerà azzeccata, percorreremo una valle straordinaria, nella solitudine più assoluta, per decine di chilometri, circondati da paesaggi maestosi. Più volte ci fermeremo ad ammirare le marmotte (ne conterò in totale più di una trentina), scorrazzare felici in un ambiente incontaminato, fino a raggiungere il passo Wari la (5.280 metri). Foto di rito e poi giù, verso il villaggio di Sakti, fermandoci però a camminare in mezzo ad una mandria di yak. Un momento emozionante stare vicino a loro, mentre brucano o bevono da un ruscello che scorre giù, donando poi le sue acque al grande Indo. Da Sakti (3.812 metri) risaliamo fino al Chang la pass (5.300 metri). Questa tratta, di 34 chilometri si coprirà lungo una buona strada asfaltata a due corsie, percorsa da molti camion e motociclisti. Giunto al passo, solita foto alla stele, per poi tornare giù, a Sakti, dove pranzo con una semplice e veloce omelette. Ripartiamo, giungendo al vicino monastero di Chemrey, aggrappato come un nido di rondine ai lati di una collina a forma di cono. La trentina di monaci presenti appartengono alla corrente Drugpa. La Dukhang è piuttosto spoglia, ha solo due statue di grandi dimensioni e un bellissimo stupa d’argento. Le pareti sono dipinte con i “mille Buddha”, oltre a due mandala. Ma l’orgoglio di Chemrey è il Guru Lhakhand, un grande e impressionante nuovo tempio all’ultimo piano, con murales dipinti di fresco e una gigantesca immagine di Padmasambhava alta 3 metri. La giornata termina con la visita al monastero di Hemis, che segue la scuola Kagyupa, fondata nell’11° secolo dal leggendario Tilopa. E’ il più grande e ricco monastero del Ladakh. Questa ricchezza aumentò quando altri gompa portarono i loro tesori per sicurezza qui. La sua posizione defilata lo ha preservato dalle innumerevoli incursioni e saccheggi che hanno distrutto gran parte dei monasteri circostanti nel corso della storia e il gompa di Hemis è sempre stato considerato un monastero relativamente sicuro. Raggiungo il bellissimo cortile centrale, ricco di particolari policromi lignei. Un colonnato corre lungo la base dell’edificio, aprendo una fila di ruote di preghiera e intervallato da due rampe di scale che conducono alle due grandi sale del monastero, la Dukhang e, alla sua sinistra, il Tsogkhang che visito per primo. Ammiro le consuete divinità guardiane dipinte sulle pareti del suo grande portico, insieme alla “Ruota della Vita”. All’interno è una gigantesca statua del Buddha di 4.5 metri realizzata in rame e, dietro di essa, un grande stupa d’argento, incrostato di turchese, perle e altre pietre preziose. Infine entro nella Dukhang, una camera con 36 colonne di legno che reggono il tetto. Le file dei sedili dei monaci sono poste non una di fronte all’altra, ma lateralmente. Ci sono due troni sul lato sinistro della sala, riservati ai due Lama più importanti del monastero. Sulla parete di fondo è una spaventosa maschera che rappresenta Pehar Gyaalpo, venerato come la divinità protettrice di Hemis. Bene, è giunto il momento di ritornare a Leh, al mio solito hotel. Sono stanchissimo e per cena non ho voglia che di una pizza, ma anche stavolta, non possono fare a meno di conferirgli quel piccantino senza il quale gli indiani proprio non riescono a nutrirsi. I prossimi due giorni saranno quelli campali, e spero tanto che tutto fili liscio.

14/9/2024 – Partiamo prestissimo, alle 6.15, coprendo i primi 50 chilometri fino al villaggio di Upshi in un paesaggio piacevole, ma non ancora in grado di sorprendere. Da qui in poi, invece, si entra in una valle magnifica. Il nostro procedere è accompagnato dalla visione di montagne stupende, pareti rocciose che cambiano di colore ad ogni curva. E pochissime auto o camion, mentre superiamo villaggi remoti come Lato, Rumtse. Si comincia a salire di quota, i tornanti sono sempre più presenti, come i picchi innevati che si scorgono in lontananza. E’ un emozione continua, non si stacca mai gli occhi da un panorama che davvero muta dopo ogni curva, fino a giungere ad un altro degli altissimi passi di cui è pieno questa incredibile regione del nord indiano. Siamo giunti al Taglang la (5.362 metri), le montagne intorno sono cariche di neve e intorno file di bandiere di preghiera tibetane. Sulla stele presente si indica che questo è il 12° passo più alto del mondo. Ma ora dobbiamo scendere, la strada da fare è ancora molta. Altri 45 chilometri, ed eccoci ora al lago Tso Kar, che sulla mappa sembrava abbastanza grande, ma ora non è altro che un quinto di quello che potrebbe essere stato qualche tempo fa. E’ un lago salato, dominato dalle cime di due alte montagne, il Thujie (6.050 metri) e il Gursan (6.370 metri). Fino a pochi anni orsono il lago era un importante fonte di sale che i nomadi Changpa esportavano in Tibet. Proseguiamo, immersi ancora in un continuo spot d’alta montagna, e ricominciamo a salire, fino a giungere ad un altro passo, il Polokonka la (4.970 metri). Non mi stancherò mai di evidenziare la magnificenza del paesaggio che si manifesta dinnanzi a noi. E’ un emozione continua, fino all’incirca al villaggio di Puga, dove Lobzang mi indica in lontananza delle hot spring, dell’attività geotermica che mi consiglia di vedere. Sono un po’ lontane da raggiungere, bisogna tirarsi su i pantaloni, togliersi scarpe e calze, perché si deve attraversare almeno 300-400 metri di prateria inondata, dove si deve mettere i piedi nei punti giusti, dove sono presenti ciuffi o cunette di erba. Il rischio è quello di finire nel fango fino alle ginocchia. Sarà un percorso molto faticoso e ricco di insidie, dove cadrò tre volte, per imperizia, sporcandomi di fango persino i gomiti, senza contare la temperatura dell’acqua (a piedi nudi), non certo tiepida. L’avessi saputo prima non ci sarei mai andato, perché l’attrazione non giustificava l’impegno e i rischi che mi sono assunto. Proseguiamo, sempre in direzione del lago Tso Moriri, ma prima di raggiungerlo dobbiamo ancora salire di quota, fino ai 4.840 metri del passo Nusgur la. Ormai il mio fisico si sta assuefacendo a queste incredibili altezze, ma non le emozioni che mi danno, che sono continue, elettrizzanti, grazie a paesaggi davvero maestosi. Si ridiscende per l’ennesima volta fino al lago Kiagar Tzo, di un blu cobalto, strepitoso. Ora non manca molto all’originale termine della giornata, al Tso Moriri, prima che modificassi l’itinerario per concedermi la chance di poter raggiungere il passo più alto del mondo. Infatti eccolo, la sua posizione lo rende un importante punto di sosta migratoria per circa 40 specie di uccelli di sei famiglie. Il lago e l'area circostante fanno parte della Riserva per la conservazione della zona umida di Tso Moriri. Purtroppo non ne vedrò alcuno, forse non è la stagione adatta, ma il colpo d’occhio è strabiliante. Tra le montagne più alte che lo fiancheggiano abbiamo il Lungser Kangri (6.666 metri) e il Chanmser Kangri (6.622 metri). Entriamo a Kurzok, l’unico villaggio sulle sue rive, dove approfittiamo sia per entrare nel monastero locale, peraltro poco interessante, che per pranzare con la solita omelette. Ormai ho un rifiuto del piccante locale. Bene, fin qui tutto è andato liscio, ma ora ci aspettano altri 100 chilometri per arrivare ad Hanle, punto di partenza obbligato per poi salire sul re dei passi mondiali, l’Umling la, a 5.799 metri. Lungo il tragitto, altri due check point, non si deve dimenticare che da qui si giunge fino al border con la Cina. Ammiro bellissimi panorami dell’Indo, e delle montagne che lo fiancheggiano. Il suo fluire talvolta è tranquillo, altre è increspato da rapide insidiose. Alle 18.30, facciamo il nostro ingresso nel villaggio di Hanle, e non vedo l’ora che Lobzang mi trovi un alloggio per riposare le mie ossa, ormai sbalestrate da migliaia di sobbalzi. Purtroppo i pochi alberghetti sono tutti occupati. Siamo arrivati troppo tardi, decine di motociclisti hanno preso possesso di ogni camera disponibile in questo luogo sperduto nel mondo. Tutti loro non vedranno l’ora di salire e salire, fino alla gloria. Consiglio allora al mio driver di provare in qualche casa privata, e avrò ragione. Mi viene fornita una stanza tutta per me con persino quattro letti, ma importante che si stia al caldo, perché Hanle è situato a 4.600 metri e il clima è abbastanza rigido. Solita omelette, insieme alla famiglia che mi ospita e poi a letto, ma non riuscirò a dormire che un oretta, l’adrenalina mi pompa il cervello, e non vorrei che qualche contrattempo imprevisto potesse pregiudicarmi la realizzazione di questo sogno.

15/9/2024 – E sono giunto al mio ultimo giorno di viaggio. Il meteo sembra buono, ma può cambiare repentinamente. Sono le 6.15 quando prendiamo una pista verso sud che taglia praterie piene di bestiame, mucche e yak che pascolano placidamente. Giungiamo ad una sorta di altopiano dove per la prima volta vedrò gli asini selvatici tibetani. Ne avvisterò parecchi, alcuni intenti a brucare, altri a correre a perdifiato, sicuramente felici di muoversi liberamente in questo che per loro sarà senz’altro come il paradiso terrestre. Al termine di questo altopiano si comincia a salire, per ora i panorami sono simili a quelli di molti altri già ammirati, fino al villaggio di poche casupole di Chisumle. Da qui si comincia a salire veramente, tornante dopo tornante, con montagne innevate che paiono sempre più vicine. L’adrenalina pompa, mentre ci avviciniamo sempre di più alla meta. La neve fa la sua comparsa ai lati della strada, per fortuna quasi sempre asfaltata. Da quando abbiamo lasciato Hanle, per tutti gli 80 chilometri fino al passo, non abbiamo incontrato né un auto, né un motociclista. E’ un emozione debordante quando, finalmente, giungiamo all’Umling la (5.799 metri). Ci siano solo noi, e davvero mi pare di essere il padrone del mondo. Anche Lobzang è felice, e lo manifesta chiaramente. Anche per lui è la prima volta, scatta foto in continuazione col suo cellulare, alla stele che indica il passo come il più alto del mondo, alle montagne circostanti. Qui c’è la sorgente del torrente Umlung, che sfocerà poi nell’Indo. Scendendo dal passo si può raggiungere il remoto villaggio di Demchok, a due passi dal confine cinese. Ci diamo il cinque, ci abbracciamo soddisfatti e godiamo poi in silenzio alcuni altri istanti, per contemplare il paesaggio magnifico che ci circonda, per poi ripartire. Lungo il percorso di ritorno, incontreremo moltissimi motociclisti, che probabilmente in seguito pernotteranno ancora ad Hanle, mentre noi dovremo proseguire per altri 250 chilometri fino a Leh, dato che domattina ho il volo per New Delhi. Dopo l’enorme soddisfazione di aver raggiunto l’Umling la pass, ormai mi sento appagato, perciò il mio pensiero è solo quello di raggiungere senza problemi Leh. Sosteremo per pranzo a Chumatang, per poi proseguire velocemente fino a zone più civilizzate. A Leh pernotterò sempre al solito hotel e per cena tornerò al The Tibetan kitchen, dove, e per la prima volta, delizierò il mio palato con una straordinaria fresh mountain trout, con contorno di verdure. Bene, questo viaggio mi ha regalato emozioni fortissime, ed è culminato in un climax impensabile. Non potevo chiedere di più, il mattino successivo ringrazio e saluto Lobzang che mi accompagna in aeroporto. Non subirò alcun ritardo significativo nei voli per New Delhi e poi per Francoforte e Milano Linate. Tutto bene perciò, grazie alla mia buona stella e, perché no, alla mia forte determinazione.

 

 

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